Perché dobbiamo continuare a fondare la Famiglia, oggi?
Quasi non esiste più l’impulso a creare nuove stirpi o casate. Perché manca il desiderio evolutivo di istituire un ambito peculiare dove poter cullare i propri obiettivi di vita? Perché il pensiero delle giovani generazioni è quello di concepire la famiglia come il luogo che toglierebbe l’energia?
La risposta è semplice: perché gli hanno fatto credere che la loro famiglia di origine potesse e dovesse continuare a dar loro energia e sostegno per tutta la vita! I genitori delle nuove generazioni hanno fatto supporre ai propri figli che avrebbero potuto contare su un ragionamento così assurdo e involutivo.
Il normale desiderio di crescita e di uscita dalla propria famiglia di origine per diventare autonomi e liberi si è ad un certo punto interrotto. La volontà di andarsi a costruire la propria discendenza con più possibilità intellettive e visioni armoniche con il presente è stata quasi bloccata nel mondo occidentale. E la causa radice di questo blocco risiede nella rivoluzione culturale del ‘68.
Il disimpegno, figlio della libertà totale
Il messaggio del ’68 è stato: “Tutto ciò che ci avete raccontato sui valori e sulla gerarchia non è assolutamente vero. La libertà è il valore assoluto e nulla può essere a lei superiore. Dobbiamo liberalizzare ogni tipo di sessualità, dobbiamo liberalizzare le droghe e sdoganare qualsiasi tipo di pensiero: tutto è lecito e le regole non esistono, solo eccezioni”.
Ed è così che generazioni successive hanno realizzato in pieno il Progetto Senso di quella generazione: i loro figli si sentono il prodotto della libertà assoluta dei loro genitori e dunque hanno perfettamente il diritto di pretendere, da chi li ha fatti nascere, un totale accudimento per tutta la vita. Se non esistono regole preesistenti alla pulsione riproduttiva dei genitori, il figlio è giustificato nel rivolgere loro la fatidica domanda: “Ma chi vi ha chiesto di essere messo al mondo? Non certo io! E dunque voi ora mi campate e mi mantenete!” Così dicendo mostrano di essere la realizzazione compiuta di ciò che in quegli anni di rivolta venne espresso in tutto il mondo occidentale.
L’esperienza del ’68 è stata una vera e propria rivolta sociale: “Io non voglio sottostare a nessuna regola che avete creato!” “Fate l’amore e non la guerra!” Certo era una rivolta connessa anche alla paura di tornare in guerra (era pur sempre il periodo del conflitto in Vietnam) e in quell’ambito poteva avere un significato e un valore. Le successive manifestazioni di quel Progetto si sono rivelate anti-evolutive perché se tutto è permesso e non ci sono regole, qualcuno dovrà pur subirne le conseguenze. Se qualcuno può fare tutto ciò che vuole, qualcun altro subirà gli effetti di ciò che il primo sta facendo. I figli di coloro che hanno vissuto il ’68 hanno così realizzato il Progetto senso dei padri: “Tu mi sostieni secondo le tue regole libertarie, prendo in mano il tuo sogno e agisco finalmente con la più totale delle libertà: non voglio lavorare, non voglio fare niente, voglio solo viaggiare e conoscere il mondo, ma voglio solo guardare, senza coinvolgermi in niente!”
Così il Progetto Senso si è incarnato come avulso da ogni limite: la persona si può disimpegnare completamente dall’esistenza e nessuno può riprenderlo o dargli dei consigli o una direzione, è così convinta di avere ragione che lo svincolo da ogni occupazione o interesse lo dà per appurato, per ovvio. E’ stato così incarnato il progetto dei padri, in tutta la sua magnificenza.
Il mondo produttivo ed evolutivo sta evolvendo solo nei luoghi che non hanno conosciuto la rivolta del ’68: Cina e India in primis. Anche l’America ha subito quella devastazione, ma anche la tragedia dell’11 settembre che ha segnato la fine dell’epopea della libertà totale.
Perché solo il trauma ferma il disimpegno?
L’11 settembre ha spezzato la teoria involutiva della non-regola ed ha reintrodotto l’evidenza della caducità della vita umana. La vita non è banale e scontata, è qualcosa che può essere persa e il valore non sta nella libertà assoluta da ogni elemento autorevole, ma nella scelta del fare della vita qualcosa.
Da quel tragico punto l’America ha invertito il suo trend ed è tornata a risalire la china. In Italia, nel frattempo, non c’è stato nulla che abbia interrotto quella cattiva visione libertaria. Tutto si sta purtroppo ripercuotendo a livello economico che rischia di riportarci ad un nuovo ’29. Non c’è futuro oggettivo, se non nelle città più grandi come Milano, che dureranno 5 o 6 anni in più del resto. Potranno sopravvivere solo le realtà che saranno state capaci di diventare autonome e autosufficienti.
Ma perché solo eventi drastici e pesanti possono sbloccare la mente occidentale dalla voglia di non fare più niente?
Anche gli inglesi hanno fatto l’esperienza dolorosa di una crisi identitaria che è scaturita nella Brexit, che non è stata vissuta a cuor leggero, anzi. I francesi hanno vissuto le battaglie urbane dei gilet gialli e l’evento improvviso e drammatico di Notre Dame che brucia. Noi italiani non smentiamo mai la nostra profonda natura anarchica che si evidenzia nella falsa lotta tra fazioni contrapposte e così siamo arrivati allo stallo della compresenza di due Papi che mettono in crisi definitivamente il tema dell’autorevolezza e della gerarchia.
In finale arriva anche per noi il trauma del coronavirus per ridarci la nozione della fragilità dell’esistenza umana, per ricomprendere l’evidenza terribile che ogni civiltà nasce dal culto dei propri morti e dei propri cari defunti. E’ solo l’impossibilità oggi di onorarli che riattiva quelle verità profonde.
Con questo scritto vorremmo dire che ci si affranca dalla vecchia famiglia solo progettandone una nuova che possa diventare il serbatoio non solo dell’amore con il partner, ma anche di una nuova e condivisa progettualità di vita di cui il figlio è l’espressione più elevata.
Questa non è una visione patriarcale o cattolica dell’esistenza, bensì semplicemente biologica. Il figlio che nascerà è il prosieguo di questo nuovo “sentire”. Non significa ritornare all’interno di una concezione autoritaria, reintroducendo il potere del clan familiare. Sappiamo che nel futuro, quel figlio andrà a fare tutt’altro rispetto a suo padre, ma quello che indichiamo come “sentire” è in verità il fondamento di un aspetto etico, l’unico che ci può muovere. Fare un figlio significa lanciarlo nel mondo con il desiderio che possa realizzare non un generico sogno di felicità, ma la compiutezza del suo progetto di vita in accordo con i suoi veri talenti. Questa è l’eticità che dobbiamo tentare di far rinascere dentro la nostra cultura quotidiana.
Non c’è nessuna nuova identità dopo il ’68. Le nuove identità sono “essere progressisti e tolleranti?”, “fare entrare tutti nel nostro territorio?”, “auto-concepirci come disponibilità tout court?”, “oppure cavalcare l’onda verde dell’amore per l’ambiente?”. Neanche i nuovi ragazzi sono in grado di indicare soluzioni, ma solo di chiedere “ai più grandi” di sistemare le cose che non vanno. “Hai messo un’ipoteca sul mio futuro! E dunque mi devi restituire la garanzia originaria di questo mondo alla deriva!” Ma anche qui non sono ancora emerse nuove identità, nuove visioni soggettive e universali insieme (etiche appunto), ma si ripropongono solo individualità arrabbiate e impaurite.
Nessuno può dire a un altro: “Mi hai tolto il mio futuro!” Perché ogni futuro viene costruito da ciascun individuo. I giovani occidentali di oggi potrebbero essere grati del fatto che, ad esempio, non ci sono più state guerre mondiali e totali da 75 anni, quasi l’intera vita di un uomo. Il futuro lo può togliere, quello sì, una guerra nucleare e globale, non i cicli del riscaldamento globale.
Nell’inconscio collettivo il miracolo che non ci siano state guerre in questo grande lasso di tempo non viene recepito come la vera anomalia della cultura occidentale. Siamo riusciti a rimandare lo spettro della guerra grazie ad un consumismo sfrenato, dando vita a dei valori che non avevano alcun contenuto.
Dopo ogni guerra, devastante e terribile, tornano sempre a fiorire i valori, perché l’essere umano ha toccato con mano la parte più pesante e malvagia della propria natura. Quel ciclo quasi naturale di demolizione della civiltà e della sua ricostruzione su nuove basi valoriali si è interrotto perché la tecnologia ci ha donato la Bomba atomica come deterrente assoluto per la prossima guerra mondiale.
Dunque siamo costretti e destinati a soccombere per entropia, oppure dobbiamo far rinascere il valore non più da elementi esterni, da eventi catastrofici o da invasioni di alieni, ma dal profondo della nostra umanità, senza intercessione delle morenti religioni o del trauma catastrofico di una pandemia totale. Questa è la nuova sfida del prossimo futuro.
L’unica cosa che possiamo condividere con i nuovi movimenti ambientalisti è che dobbiamo assolutamente smettere di produrre ed acquistare il superfluo e concentrarci sui nostri veri bisogni oggettivi. Viaggiare tutte le domeniche con auto e aerei non è un bisogno oggettivo, viaggiare continuamente in giro per il mondo non è un bisogno oggettivo. Tutto questo dovrebbe essere calmierato in tutto il mondo. E’ necessario cambiare un computer ogni due anni e un cellulare ogni 6 mesi? Dobbiamo tornare a far durare gli oggetti il più a lungo possibile. Questo porterà a distruggere o a migliorare l’economia? Ci vuole un 1929 per far riaccendere questa antica saggezza?
Occorre produrre oggetti che durino molto nel tempo. Non importa che ci siano tantissime aziende a fabbricare le medesime cose. E’ la specializzazione e la professionalità da investire nel prodotto che lo fa diventare durevole nel tempo. Non ci sono altre strade. Va modificato completamente il sistema produttivo che non può permettersi di creare qualcosa che duri poco nel tempo. La chiave dell’etica è il tempo.
Oggetti e progetti durevoli nel tempo.
Scritto all’inizio del 2020 (prima del coronavirus)